Dissonanze, isterismi e frenesia sono gli elementi che caratterizzano il primo lavoro sulla lunga distanza dei Buzz Aldrin.
Ma ridurre il discorso alla miscela post punk, dove tutti siamo figli di ogni organo di Colin Newman ed oggi amiamo – con rispetto del passato- Angus Andrew, sarebbe, in parte, mistificatorio e riduttivo.
Perchè i Buzz Aldrin arriveranno anche secondi sulla luna, ma alla fine quello che conta è arrivarci davvero. Sulla luna, si intende. E loro, da quando vi hanno poggiato piede, non stanno troppo a pensare a chi c’era prima o a chi verrà dopo. Perchè l’insegnamento dell’epoca, alla fine della fiera, era proprio quello. Magari da declinare in modo nevrotico e tagliente. Ma era quello. Allora via a deragliamenti trascinati dall’aspetto percussivo, picchiando il concetto di canzone senza volerlo in alcun modo rinnegare, tramite una reiterazione alienante (e consapevole) di suoni e dimensioni. Correndo, va detto, perché nella “corsa” la band bolognese è già entrata da un pezzo: fin dal giorno in cui ha deciso di spezzare i ritmi, ringhiando con languore e scheggiando i tribalismi. Così nulla si crea e nulla si distrugge, tuttavia si può (o si dovrebbe) sempre personalizzare, sia quando si cercano appigli shoegaze sia quando si vaga in strutture new wave. E puntuale, qui, la cosa avviene, attraverso trame velenose ed urticanti per cuore, cervello e stomaco. A tratti con piglio sardonico, in altre occasioni sfigurando la psicosi in curiosa immediatezza. Sempre, comunque, con alta dose assuefativa, destinata a creare dipendenza. Oltre ad una sorta di inquieta ossessione, intollerante nel non voler mai uscire dalla testa di chi ascolta.